Ventenne di Edimburgo, Mark Renton ha scelto per sé “un’onesta e sincera tossicodipendenza” in
modo da non doversi preoccupare del sesso, del lavoro o dei rapporti sociali. Ha degli amici o meglio
dei compari con cui rubacchiare, parlare a vuoto, bere birra e bucarsi le vene: sono Sick Boy, tutto
provocazioni e capelli ossigenati, Begbie, imprevedibilmente violento e alcolizzato, Tommy, che cerca
di star fuori dal giro dell’eroina, e Spud, forse l’unico di cui può fidarsi. Tra tentativi di disintossicazione,
ricadute e un inatteso colpo che può cambiare la vita a tutti, Mark forse entrerà a far parte dell’odiata,
ma rispettabile società.
Basterebbe il tuffo nel cesso più sporco di Scozia, alla ricerca di due supposte di oppio, per consegnare
‘Trainspotting’ alla storia del cinema più cult. Subito dopo il fortunato esordio di ‘Piccoli omicidi tra
amici’, già scritto da John Hodge, prodotto da Andrew MacDonald e interpretato da Ewan McGregor al
primo ruolo cinematografico, Danny Boyle ha l’ambizione di firmare uno dei film-scandalo degli anni
Novanta, fornendo il ritratto di una generazione senza ideali che non ha alcuna intenzione di cavarsi
fuori dalla situazione in cui versa. È la stessa Diane, la studentessa con cui Mark finisce a letto, a
fotografare il presente con allarmante attenzione: la musica sta cambiando, le droghe anche, c’è da
scegliere altro, gli dice con il tono di chi la sa lunga. Ma come?
Tratto dal romanzo omonimo di Irvine Welsh, ampiamente sfrondato delle sue componenti più politiche,
è un film che può contare su una colonna sonora travolgente (da Lou Reed a Iggy Pop, dagli
Underworld ai Blur), un gruppo di attori più che precisi e dialoghi immediatamente entrati nella cultura di
massa (si pensi solo a “Provate a immaginare l’orgasmo più bello della vostra vita, moltiplicatelo per
mille, e capirete cosa significa farsi di eroina”). Memore della lezione di Tarantino, quasi si gioca a
superare l’americano nell’uso delle ellissi e nei dettagli forti, ‘Trainspotting’ è certamente un esercizio di
stile, un lavoro fin dall’inizio progettato per essere di culto, in sintesi, fatto per colpire il gusto dei
benpensanti e per deliziare i “non allineati”. Eppure, al di là del campionario di sangue, sostanze fecali,
aghi e corpi in disfacimento, Boyle dà una lezione morale non da poco. Accusato all’epoca di esaltare il
consumo di eroina, in realtà, il racconto non fa altro che scoperchiare il male assoluto della
tossicodipendenza: a cominciare dalla fine di Tommy, sono molteplici i momenti realmente tragici, quasi
sempre stemperati dalla giustapposizione di altre sequenze nella volontà di non far capire la vera
natura del gioco.
Certamente furbo, spesso geniale, comico, spaventoso, divertente, angosciante, ossessivo, ma non
ambiguo come si è detto, è un lavoro che prende a piene mani da Kubrick, Scorsese, dai fratelli Coen,
Almodóvar, Lester, Roeg, Russell; nella discoteca Volcano, citazioni dirette da ‘Arancia meccanica’, la
stanza simile al Korova Milk Bar, e ‘Taxi Driver’, le gigantografie di Travis e Iris. Può essere letto come
una riflessione sulla pochezza del presente e sulla grandezza del passato: Mark che legge la biografia
di Montgomery Clift o Sick Boy che parla in continuazione dello Sean Connery che fu non rimandano
forse a questo? Irvine Welsh interpreta il ruolo di Mikey

Fonte: My Movies

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